Le tutele per cittadini e imprese “multati” e “danneggiati” a causa dei provvedimenti anti-COVID19, nella babele di DPCM e ordinanze
In occasione dell’emanazione del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, abbiamo cercato di ricostruire su questo blog le modalità con cui l’atto legislativo avrebbe potuto risolvere il contrasto tra misure statali, regionali e comunali di contenimento della diffusione del coronavirus, attraverso una soluzione di coordinamento tra Stato e Regioni all’interno degli ormai noti decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.) emanati in attuazione del decreto-legge stesso.
Ad un mese di distanza, non si può che constatare come purtroppo il contrasto persista, e con esso l’incertezza per cittadini e operatori economici. Le Regioni continuano ad emanare propri atti, contenenti misure diverse da quanto previsto nei d.P.C.M. statali.
Riprendendo l’esempio dell’attività degli studi professionali, già utilizzato nel nostro precedente articolo, si può notare come – a livello statale – l’esclusione di tali attività dall’obbligo di chiusura sia stata ribadita dal d.P.C.M. del 10 aprile 2020. Il giorno dopo, però, la Regione Lombardia ha nuovamente ordinato la chiusura degli studi, salvo che per “specifici adempimenti relativi ai servizi indifferibili ed urgenti o sottoposti a termini di scadenza”.
Di fronte a contrasti di questo genere, il Governo sembra aver di fatto rinunciato a far valere la prevalenza dei propri atti e i limiti ai poteri delle Regioni previsti dal d.l. n. 19/2020, secondo cui le ordinanze regionali dovrebbero essere emesse unicamente in casi particolari (specifiche situazioni di aggravamento del rischio sanitario sopravvenute), solo per le attività di competenza regionale e comunque solo fino all’adozione dei corrispondenti d.P.C.M.
A fronte delle diverse iniziative regionali intervenute, infatti, nel già citato d.P.C.M. del 10 aprile il Governo ha previsto che “[s]i continuano ad applicare le misure di contenimento più restrittive adottate dalle Regioni, anche d’intesa con il Ministro della salute, relativamente a specifiche aree del territorio regionale”.
Non vi è tuttora dunque un coordinamento chiaro tra poteri statali e regionali, che – al contrario di quanto previsto dal d.l. n. 19/2020 – sembrano prevalere in questa fase, perlomeno per le previsioni più restrittive di quelle statali (interpretazione condivisa dal TAR Lombardia, che sulla base di tali argomentazioni con decreto presidenziale n. 634/2020 del 23 aprile scorso, ha sospeso in via cautelare la previsione dell’Ordinanza di Regione Lombardia n. 528/2020 che consentiva – prima del 3 maggio 2020 – la consegna a domicilio di operatori commerciali al dettaglio appartenenti a categorie merceologiche non comprese nell’allegato 1 del D.P.C.M. del 10 aprile 2020 e che quindi introduceva una misura di contenimento “più leggera” rispetto al provvedimento statale).
A questo si sommano ulteriori iniziative a livello comunale che eccedono in modo palese i limiti posti dagli atti centrali: le ordinanze dei Sindaci lette in queste settimane hanno incluso ad esempio un obbligo di registrazione in un sito comunale per chiunque voglia raggiungere la Sicilia dallo stretto di Messina, o ancora l’imposizione di un limite minimo di spesa nei supermercati ed esercizi alimentari del territorio comunale.
L’incertezza potrebbe persino aumentare con la diminuzione dei vincoli del lockdown nella cd. “fase due” ovvero per il periodo successivo al 4 maggio 2020, con riferimento al quale proprio stamattina è stato pubblicato il DPCM 26 aprile 2020: si pensi ad esempio alla Regione Veneto che, dopo aver adottato già il 24 aprile u.s. l’ordinanza n. 42/2020 – in contrasto con la normativa nazionale -anticipava già da tale data la possibilità di svolgere determinata attività commerciale oppure determinate attività di cantiere (nel pubblico e nel privato), ha già annunciato l’adozione già in giornata di un’ulteriore ordinanza con misure “meno rigide” rispetto al DPCM 26 aprile 2020 (ergo: possibilità di spostamento verso le seconde case e barche fuori dal Comune di residenza).
Altri Presidenti regionali hanno affermato nei giorni scorsi la volontà di assumere decisioni autonome rispetto al Governo centrale anche sulla riapertura delle attività economiche e sull’allentamento delle restrizioni agli spostamenti.
A fronte di decisioni di Regioni e singoli Comuni in contrasto con quanto previsto dalla legge statale, il Governo potrebbe decidere di intervenire chiarendo meglio nei d.P.C.M. quali ordinanze considerare applicabili (eventualmente “trasferendole” nell’atto statale) oppure agire di fronte al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento degli atti, o ancora esercitare i poteri “sostitutivi” attribuiti dall’art. 120 della Costituzione (nei confronti delle Regioni e degli enti locali) o dal Testo unico degli enti locali (d.lgs. n. 267/2000 – nei confronti dei soli comuni). Per il momento però, salvo alcune eccezioni, il Governo non ha percorso le soluzioni di cui sopra.
In questa situazione di incertezza il rischio di incorrere in violazioni inconsapevoli delle prescrizioni aumenta inevitabilmente. Per le violazioni delle previsioni (dei d.P.C.M. come delle ordinanze di altra origine), il d.l. n. 19/2020 prevede attualmente l’applicazione di sanzioni amministrative da euro 400 a euro 3.000, che può aumentare fino al doppio in caso di reiterazione e accompagnarsi all’obbligo di sospensione delle attività economiche fino a trenta giorni nel caso la violazione riguardi le misure adottate nei loro confronti.
Quali sono dunque le forme di tutela possibili di fronte ai differenti provvedimenti a livello statale, regionale e locale?
Una prima possibilità, a livello giurisdizionale, è il ricorso al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento (o meglio la sospensione in via di urgenza) dei provvedimenti che prevedono le limitazioni. In questi mesi però i tentativi di impugnativa da parte di privati delle ordinanze regionali o comunali più “severe” rispetto alle norme statale non hanno trovato accoglimento in quanto – comprensibilmente – i TAR hanno scelto di favorire l’interesse alla tutela della salute pubblica più che il “pericolo” di un danno per il privato (il cd. “periculum in mora”, requisito fondamentale per l’ottenimento della sospensione cautelare). Rimane però teoricamente possibile instaurare comunque un ricorso per ottenere – in tempi più lunghi – il risarcimento del danno derivante dal provvedimento limitativo impugnato.
Se invece le autorità hanno già inflitto una sanzione per la violazione degli obblighi derivanti dai provvedimenti, questa può essere contestata di fronte al giudice ordinario.
In entrambe le ipotesi, i vizi ipotizzabili (oltre ad eventuali profili procedurali e difetto dei presupposti sostanziali per l’emissione della sanzione) possono riguardare anche profili di illegittimità costituzionale: per le ordinanze regionali, l’invasione delle sfere di competenza esclusiva statale, per gli atti statali, l’utilizzo eccessivo e non sufficientemente basato su legge dei d.P.C.M.