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Proroga concessioni balneari: aspettando la riforma del settore, la Commissione avvia una procedura di infrazione contro l’Italia

Proroga concessioni balneari: aspettando la riforma del settore, la Commissione avvia una procedura di infrazione contro l’Italia

Agli inizi dello scorso dicembre, la Commissione UE ha inviato al Governo italiano una lettera di messa in mora in relazione alla disciplina nazionale sulle concessioni demaniali marittime.

Cerchiamo di comprendere brevemente quali sono le ragioni alla base di tale atto, che – come già descritto in relazione ad un altro settore – segna il primo passaggio formale delle cd. “procedure di infrazione” avviate dall’Unione europea nei confronti degli Stati membri che violano il diritto europeo.

Il contrasto con il diritto europeo

Nel settore delle concessioni demaniali marittime – strumento attraverso cui lo Stato permette l’utilizzo e lo sfruttamento delle spiagge, normalmente ad operatori turistici – il contrasto con il diritto europeo riguarda in particolare la durata e la modalità di assegnazione delle concessioni. La disciplina europea (e in particolare la direttiva 2006/123/CE, cd. direttiva servizi o Bolkenstein) detta infatti alcuni principi fondamentali per i provvedimenti che attribuiscono un beneficio in relazione a risorse scarse, come per ovvi motivi sono le concessioni sulle spiagge. Come ricordato dalla stessa Commissione nella lettera di messa in mora, tali provvedimenti devono essere rilasciati per un periodo limitato e tramite una procedura di selezione ad evidenza pubblica, aperta e basata su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi.

La disciplina italiana delle concessioni demaniali trova da tempo in contrasto con i principi della direttiva Bolkenstein, contrasto cui il legislatore italiano fatica a trovare una soluzione.

La disciplina italiana delle concessioni balneari – settore cui da sempre diamo ampio spazio su  questo blog, anche recentemente – trova il suo riferimento fondamentale ancora nel codice della navigazione del 1942 (r.d. n. 327/942), testo legislativo figlio di un’epoca in cui evidentemente la tutela della concorrenza non aveva la stessa importanza che ha ora in base al diritto europeo: a riprova di ciò, il codice favoriva il titolare precedente della concessione in caso di “concorso di più domande” (cd. “diritto di insistenza”) e non conteneva limitazioni particolari alla durata massima delle concessioni.

Queste caratteristiche, se da un lato hanno portato indubbiamente a delle distorsioni nel mercato favorendo in alcuni casi in modo indiscriminato i concessionari anche a discapito della qualità del servizio, hanno anche generato un affidamento nella lunga durata della concessione per i gestori. Tale affidamento va comunque tutelato, soprattutto nel caso di gestioni virtuose che hanno sostenuto investimenti ingenti confidando nel lungo termine della concessione per il rientro dall’investimento e l’ottenimento di un ritorno sullo stesso.

Dopo l’entrata in vigore della direttiva servizi (e una conseguente prima procedura di infrazione), il legislatore italiano è intervenuto sulla materia con il d.l. n. 194/2009 eliminando il diritto di insistenza, programmando – per così dire – una riforma più generale del settore più moderna ed ispirata ai principi del diritto europeo e, al contempo, prevedendo una proroga generalizzata della durata di tutte le concessioni in attesa della riforma.

La riforma – come spesso accade in Italia (per la verità anche in settori meno “delicati”) – non ha però mai trovato la luce: la proroga, inizialmente prevista fino al 2015, è stata estesa dal d.l. 179/2012 a fine 2020.

Nel frattempo, però, è intervenuta la Corte di Giustizia, che con sentenza del 14 luglio 2016 (cause C-458/18 e C-67/15, Promoimpresa) ha affermato chiaramente il contrasto con i principi del diritto europeo di una proroga automatica e generalizzata delle concessioni demaniali marittime e lacuali come quello previsto dalla normativa italiana.

La disciplina italiana attuale

Nonostante la sentenza della Corte di Giustizia, adottata giustamente come parametro fondamentale anche dal giudice ordinario e amministrativo italiano, il legislatore ha previsto nuovamente una proroga generale per le concessioni demaniali: la legge n. 145/2018 (la Legge di Bilancio per il 2019) ha spostato in avanti la durata delle concessioni vigenti, per ulteriori quindici anni a decorrere dall’entrata in vigore della legge stessa (e dunque fino al 2033). Anche in questo caso, la legge presentava un progetto di riforma generale del sistema, da adottarsi in tempi brevi (poi non rispettati) e che avrebbe regolato più dettagliatamente anche la fase transitoria in vista – finalmente – della messa a gara delle concessioni.

La proroga contenuta nella Legge di Bilancio per il 2019 ha lasciato da subito perplessi i commentatori, in quanto sembrava ripresentare i problemi di compatibilità con il diritto europeo già evidenziati dalla Corte di Giustizia nella sentenza Promoimpresa. Di conseguenza, dato che di fronte ad una violazione del diritto europeo i giudici di qualsiasi grado – ma anche le pubbliche amministrazioni – hanno il potere di “disapplicare” la normativa italiana, si è creata una situazione di incertezza sulla possibilità e validità effettiva delle proroghe delle concessioni esistenti.

Di fronte a tale situazione, il Governo italiano è intervenuto nuovamente nell’ultimo anno – e dunque in periodo di emergenza sanitaria – con il noto d.l. n. 34/2020 (cd. Decreto Rilancio), che i lettori di questo blog hanno ormai imparato a conoscere.

La disposizione introdotta dal Decreto (all’art. 182, comma secondo) è pensata come obbligo per i Comuni e le altre amministrazioni competenti di permettere la continuazione dell’attività anche successivamente al 2020 in ragione della proroga legislativa contenuta nella Legge di Bilancio per il 2019, estendendo chiaramente il principio anche alle concessioni riguardanti laghi e fiumi.

Si tratta dunque di una riaffermazione della proroga, giustificata anche dai danni economici enormi arrecati al settore dalla pandemia in corso, che non supera però il contrasto con i principi europei: rimane tuttora la possibilità (se non, per certi versi, l’obbligo) in capo a giudici e funzionari pubblici di ritenere non applicabile il diritto italiano, considerando quindi la durata delle concessioni esistenti secondo la scadenza prevista originariamente dalle stesse.

Tale posizione risulta rafforzata dalla lettera di messa in mora inviata dalla Commissione europea, la quale di fatto certifica, come visto, la permanenza del contrasto.

Un altro problema: il contrasto Stato-Regioni

Come se non bastasse, la disciplina delle concessioni demaniali risente del problema del contrasto di competenze tra Stato e Regioni – anch’esso ormai ben noto ai lettori di questo blog, anche per le manifestazioni drammatiche dello stesso negli ultimi mesi.

Le concessioni demaniali marittime riguardano, come noto e già scritto sopra, soprattutto il settore del turismo, ossia una materia di per sé attribuita dalla Costituzione alla competenza esclusiva delle Regioni. Come visto sopra, però, la disciplina delle concessioni coinvolge ampiamente profili attinenti alla tutela della concorrenza, materia in cui la competenza legislativa esclusiva spetta allo Stato.

Per questo, la Corte costituzionale si è trovata spesso a decidere su norme regionali che disciplinano le concessioni demaniali autonomamente rispetto al diritto nazionale, incidendo perciò su questioni rilevanti per la libera concorrenza del settore e dunque sulle prerogative statali.

Ultimo esempio di tale contenzioso riguarda l’art. 14 della legge della Regione Calabria n. 17/2005, come modificata dalla legge regionale n. 46/2019, con cui tale Regione ha previsto – in termini che richiamano per la verità le decisioni del legislatore statale – la possibilità per i Comuni di rinnovare le concessioni in scadenza nelle more dell’adozione di un “piano comunale delle spiagge”. Il Governo ha impugnato la legge calabra con un ricorso che è stato discusso di fronte alla Corte costituzionale nei giorni scorsi (12 gennaio 2021).

L’esigenza urgente di una riforma ragionata

I contrasti tra livelli normativi sintetizzati nei paragrafi precedenti hanno una conseguenza inevitabile e particolarmente dannosa per un settore che già lotta con la crisi economica causata dalla pandemia: l’incertezza per gli operatori, che – soprattutto se particolarmente virtuosi e lungimiranti – non possono programmare adeguatamente gli investimenti necessari per offrire un servizio sempre più di qualità o, al contrario, vorrebbero iniziare o estendere la propria attività “contendendo” concessioni in procedure pubbliche.

Negli ultimi anni sono state avviati – come accennato – diversi processi di riforma che si sono però bloccati per l’avvicendamento dei Governi e delle legislature.

La messa in mora della Commissione può essere un’occasione per stimolare il legislatore italiano a portare avanti, con convinzione e il giusto senso di “urgenza”, una riforma organica del settore che possa coniugare al meglio le esigenze della concorrenza e il legittimo affidamento degli operatori uscenti. Alcune idee fondamentali su cui incentrare il nuovo sistema sono già state proposte da progetti di legge su cui sembrava anche esserci il consenso politico necessario per l’approvazione: da un “rating di qualità” che favorisca i concessionari uscenti più virtuosi al riscatto del valore commerciale dell’azienda a carico del nuovo gestore subentrante dopo la gara, a tutela dell’investimento sostenuto dagli operatori attuali.

La base su cui fondare la riforma esiste, dunque: il legislatore deve però portare a termine il lavoro, nonostante il periodo d’emergenza. Altrimenti, l’Italia si troverà probabilmente a dover affrontare la procedura di infrazione a breve, con la prospettiva della condanna a sanzioni economiche da parte della Corte di Giustizia per la violazione di principi di diritto europeo ormai noti e obbligatori da decenni.

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